Sentiamo parlare tanto di empatia. Soprattutto ora che sembra essere la chiave di una leadership efficace in momenti di crisi. Vuoi che i tuoi dipendenti o i tuoi collaboratori affrontino con serenità ed efficienza questo momento?  Sii empatico. Come se fosse un ordine da mettere in pratica, un esercizio per cui applicandosi tutti i giorni, possano crescere dei muscoli particolari.

Ci siamo interrogati su questa parola: nasce dall’Antica Grecia e dal ruolo che avevano i cantori nel cercare di coinvolgere il loro pubblico nel sentire la stessa passione degli eroi di cui raccontavano. Più erano bravi e più il pubblico si immedesimava nelle vicende del protagonista.

Ma noi vorremmo un capo, un collega che si immedesimi esattamente in quello che proviamo o che stiamo vivendo? E noi stessi, vorremmo o saremmo in grado di immedesimarci completamente nella fatica di un altro? Forse no.

E come è possibile che l’empatia di cui si parla, almeno in ambito lavorativo, sia qualcosa da imparare a tavolino? Come possiamo imporcela, se non ne siamo capaci o se non ce la ritroviamo come dote naturale?

Sono domande scomode, a cui non abbiamo la presunzione di rispondere. Esistono manuali e saggi di ogni genere su come esercitare ed aumentare questa capacità.

 

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©Rutger Bregman

Abbiamo letto un’interessante intervista a Rutger Bregman, storico che scrive abitualmente sul quotidiano online De Correspondent.

“Al giorno d’oggi tutti parlano di empatia, definendola la soluzione a tutti i nostri problemi. Spesso, però, se ne fraintende il significato: essere empatici non vuol dire essere in grado di provare ciò che un individuo diverso da me sta provando come se le differenze tra me e l’altro si potessero facilmente annullare; essere empatici significa fare lo sforzo di metterci nei panni di una persona, che è essenzialmente e irriducibilmente diversa da me: è pericoloso dimenticarci che l’altro è differente, che ha bisogni, desideri e sentimenti che non necessariamente coincidono con i miei. Quando ci si relaziona a un altro individuo, è fondamentale porsi una domanda: che cosa desidera, che cosa preferisce la persona che ho di fronte?
Ecco perché, alla fine del paragrafo che menzionavi nella tua domanda, cito Bernard Shaw e la perfetta sintesi che ha fatto di quella che da alcuni è definita la regola di platino: «Per prima cosa chiedi alle altre persone che cosa vogliono, perché potrebbero avere desideri diversi dai tuoi; non trattarle come tu vuoi essere trattato, perché sono essenzialmente diverse da te». In generale, credo che sarebbe meglio non dare per scontati i sentimenti degli altri, pensare di conoscerli senza ombra di dubbio; al contrario, sono convinto della necessità di fare domande, conversare e dialogare di più.”

Forse possiamo imparare, non senza una certa forzatura, ad essere empatici. Però ci sembra più interessante e possibile imparare a porre domande. Ad avere a cuore l’altro, nella sua diversità. A soffermarci sulle sue risposte, che spesso mettono in discussione anche noi. E a capire come andarsi incontro.