Vorremmo partire dalla scena finale di Wonder un film del 2017 di Stephen Chbosky, per gettare uno sguardo su una parola che in questo ultimo mese è tornata più volte in evidenza, grazie ai risultati di alcune indagini condotte dall’ Università del Sussex: la gentilezza.

Qui potete trovare un articolo che ne parla e che dimostrerebbe quanto a essere gentili ci si guadagni in salute, benessere etc. in tutti i campi, dal lavoro alla vita sociale.

È di questi giorni anche la notizia della creazione di un Assessorato alla Gentilezza per il Comune di Orvieto, per aiutare a creare un dialogo tra le persone e le istituzioni.

Vogliamo provare a portarvi altrove, rispetto alle parole che circondano e accompagnano il termine gentilezza e che tendono a indentificarla con un atteggiamento che si può imparare applicandosi e- aggiungiamo noi- sforzandosi, con tutte le sfumature che contiene: solidarietà, empatia, sorrisi, cortesia, altruismo, buone maniere. Anche per i manager si parla di gentilezza come valore aggiunto e di “spinta gentile”, come strumento per portare la propria squadra in una certa direzione, con maggiore consapevolezza e meno imposizione.

Ci sentiamo sempre un po’ a disagio con queste parole grandi che accolgono molti significati e possono avere molteplici sfaccettature, da quella più semplice e immediata a quella più profonda e magari meno scontata.

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© Guido Clericetti

Ci siamo interrogati su cosa voglia dire per noi essere gentili. Si tratta di fare le cose con un sorriso? Di essere disponibili? Di essere empatici? Sicuramente ma ci sembra che forse la parola che sentiamo più corrispondente sia attenzione: porre attenzione alle persone, alle cose, alle circostanze, insomma accorgersi della realtà. E pazienza se magari per indole si è un po’ bruschi o non facili al sorriso: si può essere burberi e gentili allo stesso tempo, bruschi e però attenti a chi abbiamo intorno. Forse gentilezza, al di là dei modi, è dire “Ti vedo”, “ti sto guardando”, “mi accorgo di te”.  Altrimenti potremmo rischiare di leggere una parola importante con una lente sentimentale e alle volte, soprattutto in ambiente lavorativo, strumentale, per una convenienza economica. Se ti tratto bene, lavori meglio e produci di più.

Flannery O’ Connor scriveva:

“… di fronte al male, a guardarlo in faccia e, il più delle volte, trovarvi quel nostro riflesso ghignante con cui non facciamo i conti; ma il bene è un’altra faccenda. Pochi l’hanno fissato abbastanza a lungo da accettare il fatto che anche il suo aspetto è grottesco, che in noi il bene è qualcosa in costruzione. Le forme del male di solito ricevono espressione adeguata. Le forme del bene devono accontentarsi di un cliché o di una lisciatina che finisce per indebolire il loro reale aspetto” (Il Volto Incompiuto, saggi e lettere sul mestiere di scrivere, a cura di Antonio Spadaro, BUR, Milano, 2011)