Arturo Toscanini è stato uno dei più grandi direttori d’orchestra di tutti i tempi. Nato a Parma nel 1867, sale sul podio intorno ai vent’anni per iniziare una carriera sfolgorante che lo porterà nei più importanti teatri del mondo. Gli articoli su di lui si sprecano, anche perché il Maestro ha attraversato la Storia, contrapponendosi al nazifascismo e dirigendo l’indimenticabile concerto alla Scala del 1946 che dava il via alla ricostruzione del Paese.

In queste righe non vogliamo però soffermarci sugli aspetti musicali, ma sulla imponente capacità che Toscanini aveva di guidare i suoi orchestrali. Cerchiamo di analizzare quindi la leadership che sapeva esercitare.

Arturo Toscanini non dirige l’orchestra, la suona. La bacchetta nella mano destra a segnare il tempo, la mano sinistra in alto per scegliere il colore del suono, la bocca spesso aperta ad accompagnare il canto. Gesti chiari, ma misurati, essenziali, ma lievi.

Tanto misurato e composto in scena quanto spietato e dittatore nelle interminabili prove.

Esigente con gli altri perché innanzitutto lo è con se stesso, vive prigioniero di un’ansia perenne che spesso lo getta nello sconforto.

“Sono veramente un disgraziato, a nessuno come a me questo maledetto teatro amareggia la vita. Il peggio è che alla mia volta la amareggio agli altri, così inconsciamente, senza colpa”.

Il desiderio di fare bene per Toscanini è una motivazione molto forte, che lo spinge a fare un lavoro eccezionale. Durante le prove con la NBC Symphony Orchestra un giorno il Maestro diede un colpo di bacchetta talmente forte da gelare l’orchestra. Gli orchestrali fissarono gli spartiti chinando la testa, in previsione della tempesta. Toscanini si rivolse a William Bell, che suonava il basso tuba, e comandò: “Suonalo ancora”. Sul volto del musicista si poteva leggere una grande paura:

“No, no, no. Non c’è niente di sbagliato. Suonalo ancora, per favore, suonalo ancora solo per me. E’ così bello. Non ho mai sentito questo passaggio “solo” suonato in modo così piacevole”.

Un uomo innamorato del suo lavoro, ma anche totalmente coinvolto, quasi “schiacciato” dalla responsabilità e da un immenso talento. Pare che dopo un concerto di cui non era soddisfatto, fece saltare la cena a tutta la famiglia.

“Cosa? Dopo una tale performance? Stasera non mangiamo, che nessuno possa dire che la mia famiglia cena dopo uno spettacolo così orribile!”.

Non solo, Arturo Toscanini “re-inventa” il lavoro di direttore d’orchestra e lo trasforma, anche, in un manager: negli anni passati alla Scala Toscanini pretende e ottiene pieni poteri, interviene direttamente su scene e costumi, sulle esercitazioni dei cantanti, sul calendario delle prove e sulla gestione del cartellone. Sceglie personalmente i musicisti, basandosi su concorsi rigorosi, forma per la prima volta nel panorama musicale italiano un’orchestra stabili. In sintesi, la sua è “disruptive innovation”, un’innovazione che non procede per gradi, ma per “strappi”. E serve polso per portarla avanti.

Itay Talgam (suo lo splendido libro “The Ignorant Maestro” che consigliamo a tutti) identifica lo stile di leadership di Toscanini con un’espressione molto significativa: la leadership del “padre di famiglia”. Ovviamente si riferisce alla famiglia del primo ‘900 quando la differenza tra un padre e un dittatore non era poi così spiccata.

A nostro parere Arturo Toscanini è stato nella musica ciò che Steve Jobs è stato nel mondo dell’informatica. Il lavoro fatto bene al centro, la mania di perfezione anche a costo di rendere impossibile la vita a se stesso e agli altri. L’azienda che si “piega” per dare la forma corretta al prodotto, l’orchestra che si mette totalmente nelle mani dell’autore del brano per far emergere il suo pensiero. Una leadership non umana, che non si concilia con il rispetto (chiedete a Wozniac, che aiutò Jobs a creare Apple), che non disdegna di usare l’aggressività quando serve.

I risultati di Apple e di Toscanini sono sotto gli occhi di tutti (il parallelo non scandalizzi gli appassionati di musica). Il dato è incontestabile, ma occorre porsi un’altra domanda: questo tipo di leadership può funzionare nella mia azienda? Devo farlo mio?

Potrebbe essere una strada obbligata se lo staff fosse nuovo, impreparato e servissero risultati nel brevissimo periodo, oppure se i collaboratori non sapessero rispondere a nessun altro stile di leadership. O addirittura se il ruolo del leader è minacciato dallo staff stesso.

Gli effetti però non vanno sottovalutati: il team diventa teso, impaurito e stanco. Il morale basso può addirittura portare a una frenata sul lavoro. Non solo, pochissime situazioni sono talmente particolari da far accettare uno stile di guida di questo tipo.

Insomma, di sicuro serve il “physique du rôle”, grandi doti che compensino tutto il resto.