Sound of metal  è uno dei film usciti nel 2019, con ben 6 candidature agli Oscar 2021. Ruben, un batterista che ha fatto della musica la sua vita, spostandosi in una casa-camper con la fidanzata per locali e concerti, improvvisamente diventa sordo. Tutto il mondo fino allora conosciuto e amato cambia necessariamente.
Dopo averlo visto, la maggioranza delle recensioni che abbiamo letto offre – giustamente- particolare rilievo alla rappresentazione della sordità nel cinema e al sentimento di immedesimazione provocato nello spettatore da un eccellente lavoro sul sound design che ci fa vivere in soggettiva il trauma del protagonista, isolato di colpo in un silenzio che sembra allontanarlo da tutto; l’unica salvezza potrebbe arrivare da un costosissimo intervento ai condotti uditivi che promette meraviglie e che in realtà avrà un esito molto incerto.

 

Senza titolo

©Sound of Metal

Ma vedendo questo film in un periodo in cui molti di noi, in scala diversa, sono “isolati” davanti agli schermi di un pc, ci ha colpito soprattutto un altro aspetto che, con un paragone azzardato, ci fa pensare al nostro momento storico.
L’unica situazione nel film in cui Ruben “esce” dall’ isolamento e ritrova una prospettiva, un senso e un conforto, è quando abbandona la sua solitudine (generata da una forte ostilità al cambiamento) e decide di lasciarsi aiutare in un centro per sordomuti: qui entra in contatto con Joe, responsabile della scuola, anch’egli sordo. Solo in quel preciso momento, nella relazione con lui e con gli altri del centro, solo mettendosi in gioco per imparare il linguaggio dei segni e tornare così a comunicare, a esprimersi, a mangiare chiacchierando e ridendo in una tavola con amici, potendo tornare a parlare ed ascoltare, vediamo Ruben tornare vivo, più presente a se stesso: persino lo sguardo cambia e si fa più partecipe, meno vitreo, lo osserviamo implicarsi nella realtà senza rimanere solo spettatore. Lo vediamo tornare a suonare insegnando agli altri a percepire le vibrazioni dei tamburi. Lo vediamo sereno. Solo per qualche scena (purtroppo) non sarà ossessionato dalla paura o dall’angoscia della sua nuova condizione. Uscire da sé, dal se stesso “isolato”, dal silenzio in cui è rinchiuso non risolve certamente il suo problema fisico, ma lo riporta alla vita.

Ci viene in mente un’intervista in cui Eugenio Borgna, psichiatra e docente, rispondendo ad una domanda su come sfuggire al nichilismo che spesso sembra prevalere sulla speranza, afferma:

Bisogna affrontare questo momento di confusione esistenziale avendo il coraggio di guardare dentro noi stessi senza spaventarci dei nostri limiti, senza cadere nello scoraggiamento e nella paura cercando di recuperare l’importanza delle relazioni come antidoto al nichilismo.

Siamo fatti di relazioni, abbiamo bisogno degli altri. Chiusi in noi stessi soffochiamo o ci spegniamo. Allora forse nelle nostre giornate vale la pena, appena possibile, spegnere il pc, bussare alla porta, e offrire un caffè al collega o all’amico che non vedi da così tanto tempo. Alzare il telefono, invece che scrivere una mail, trovarsi al parco invece che su Zoom. Ne guadagnerà anche il nostro lavoro, ne siamo certi.
La creatività di ciascuno può inventare occasioni speciali!

Un bel podcast di Mario Calabresi sul silenzio e sui rumori che in quest’anno ci sono mancati lo trovate qui, se vi va, ascoltatelo!