Si è appena chiusa la settimana del Design a Milano e non abbiamo potuto fare a meno di pensare ad un luogo, visitato pochi giorni prima, che si trova appena fuori Parma, a Ozzano Taro, un piccolo comune in collina.

La casa di Ettore Guatelli è un po’ indefinibile. È un museo, ma ci sembra quasi riduttivo dirlo perché il suo stesso fondatore non si può incasellare. Figlio di contadini, maestro elementare, raccoglitore di oggetti, etnografo, antropologo, scrittore, Ettore era tutte queste cose insieme. 

Quando si varca il portone della sua casa si rimane a bocca aperta per la meraviglia: sessantamila oggetti di tutti i tipi sono distribuiti in maniera armonica ovunque; pareti, soffitti, scale, anfratti nei muri, non ci sono spazi liberi se non quelli che servono per camminare e percorrere le numerose stanze.

È come varcare la soglia di un racconto in cui ci si sente completamente immersi.

Le domande arrivano dopo, quando si esce e si rimane con una sensazione di familiarità per quello che si è visto e che in qualche modo si conosce perché sono oggetti del quotidiano più o meno trasformati nel tempo, ma anche con un sentimento di stupore a cui non è facile dare immediato significato. 

                                        

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Migliaia di cose che sono state disposte con meticolosità e cura, e che creano particolari allestimenti sulle pareti tanto da sembrare installazioni di arte contemporanea ti sovrastano da ogni parte ed è quasi impossibile vederle singolarmente, bisognerebbe passarci i giorni. 

E allora si guarda l’insieme e il primo pensiero è che dietro ad ogni martello, coltello, ruota, ingranaggio, giocattolo, insegna, scatola, c’è la storia di qualcuno che quell’oggetto l’ha costruito, l’ha, in molti casi, inventato, l’ha poi donato o venduto a Ettore. È una serialità di cui ogni pezzo ha una sua diversità e possiede una storia personale, per la maggior parte raccontata nelle schede che di notte il maestro scriveva per catalogare.

Sono cose dell’ovvio (come diceva lui) e del quotidiano. Usate, rattoppate, riusate in modo diverso dall’originale, assemblate, alcune frutto di un immaginario (si pensi alla stanza dei giochi dove un filo di ferro curvo era il manubrio di bici inesistenti con cui i bambini facevano le gare) e della fantasia. 

Ci vengono in mente un paio di pantaloni maschili di cui il tessuto ormai liso è tenuto insieme da numerosi rammendi, tanto che ormai sono quelli che prevalgono, intrecci di cuciture ago e filo. Qui non è più l’oggetto in sé, ma il gesto del rammendo e il prendersi cura di un abito passato di padre in figlio: il gesto più dell’oggetto.
O la tenda fatta di tappi corona ripiegati a metà che mossi dal vento o da chi voleva entrare nel negozio, avvisava il proprietario con un suono che a noi ha ricordato le mani dentro un sacchetto pieno di conchiglie. Ed è quello il ricordo che ci portiamo via.

Il Guatelli non è un museo della nostalgia e nemmeno un museo della civiltà contadina. È un luogo contemporaneo che ha a che fare con noi perché visitarlo e ascoltare i racconti della guida (fondamentale) ci pone domande e ci scuote: da tutta quella materia esposta si esce con la sensazione di non aver visto solo cose ma un mondo immateriale e godibile fatto di immaginario, di storie, di uomini, di relazioni che quelle cose hanno creato.

“Io voglio la storia della gente che ha usato gli attrezzi, io me ne frego altamente degli attrezzi e della tecnica, che lo facciano quelli che credono più nella scienza, io ci credo nella scienza ma nella scienza umana.”

(P.S Avremmo potuto mettere tante delle foto fatte, ma scegliamo solo due dettagli perché sarebbe bello andare a visitarlo senza aver visto nulla!)