Instructions for living life

Pay attention
Be astonisched
Tell about it

(Mary Oliver)

Cellulare si, cellulare no. In una scuola di Bologna fa notizia il divieto da parte dell’Istituto di utilizzare il telefono in classe, consegnandolo (studenti e insegnanti) all’inizio della prima ora.
Una decisione che fa discutere chi lo considera uno strumento e, come tale, utile a supporto delle lezioni, e chi decide di vietarlo per recuperare la concentrazione dei ragazzi. Lo psicologo Crepet in questi giorni si è espresso a favore per i risultati già ottenuti in uno studio in altre scuole “Vietare i telefonini comporta un netto calo dell’aggressività, un aumento netto di capacità cognitive, memoria e attenzione e, soprattutto, un aumento netto delle relazioni sociali ed emotive”.

Il tema è urgente e ci interroga in prima persona. Non è un problema relegato agli adolescenti. Interroga tutti noi: se ci guardassimo nelle attività lavorative e non, quanto siamo in grado di prestare attenzione a lungo, intensamente, a quello che stiamo leggendo, alla persona con cui stiamo parlando, al lavoro che stiamo facendo? Per quanto tempo? Dopo quanti minuti, la nostra mente viene sollecitata da altro, frammentando la concentrazione?

Senza titolo

In un interessante dibattito che potete trovare qui, è emerso che solo qualche anno fa per una lezione, il tempo di attenzione profonda stimato era di quarantacinque minuti, e poi si richiedeva una breve pausa per ricaricarsi. Attualmente il tempo è sceso a quindici minuti. Un formatore deve intervallare più o meno ogni quindici minuti con argomenti leggeri o accattivanti per non perdere il suo pubblico.

Quindici minuti! Forse qualcuno si chiamerà fuori, ma noi per primi ci accorgiamo della facilità con cui la mente scappa da tutte le parti, sollecitata sicuramente dagli strumenti che abbiamo in mano (per non dire al polso, quando messaggi o e-mail si palesano sull’orologio).
Vi riportiamo qualche punto che ci ha provocato e che ci suggerisce una strada, per non essere prede facili alla distrazione.

Intanto bisogna allenarsi, non è scontato essere concentrati perché c’è un sistema intorno a noi, teso a catturare il nostro sguardo (non è fantascienza, si parla infatti di un problema sociale).
Dunque chiediamoci spesso: questa cosa di cui mi sto interessando vale davvero il mio tempo? Sembra una domanda banale ma è il primo grado di consapevolezza. Quella che chiamiamo mindfulness, è in fondo l’avere consapevolezza delle scelte che facciamo. Oggi la tecnologia è in grado di farci fare delle cose che non vorremmo e di catturare la nostra attenzione quando in realtà non saremmo interessati. Accorgersi di questo sarebbe già un primo passo.

Altra cosa è lavorare sul flow, ricercare quell’esperienza ottimale per cui ciò che sto facendo produce in me uno stato di totale assorbimento, tanto da perdere quasi la nozione del tempo, e da procedere in modo intuitivo. Immaginatevi un pianista assorto nella sua musica, le sue mani vanno precise in modo fluido, sanno cosa devono fare e la concentrazione è massima.

Niente di tutto ciò avviene in modo automatico, è un lavoro su di noi quello che possiamo iniziare a fare. Si tratta di decidere un vero e proprio allenamento, con un obiettivo preciso.

La sfida è aperta. Torneremo ancora sul tema perché ci sta a cuore e proveremo ad esplorarlo.