Non si può dire che ci sia un unico tema che unisce tutti i miei film ma, semmai, che possiedono tutti un motivo comune, ossia la domanda: come si dovrebbe vivere? come possiamo farcela in quest’epoca con tutte le cose che viviamo e con ciò che succede nel mondo? Come possiamo scoprire per quale motivo viviamo? E credo che questo in tutti i film che ho fatto sia il punto centrale.

(Wim Wenders)

Una casa molto spoglia, essenziale: un futon da ripiegare ogni mattina, pochi oggetti per radersi e lavarsi, e dei germogli di piante da innaffiare, libri e una luce per leggere la sera. La casa si trova a ridosso di grandi palazzi e strade soprelevate nel cuore di Tokio. Ci abita Hirayama, un uomo sulla sessantina che tutti i giorni dopo aver indossato una divisa blu, si dirige al lavoro: è un addetto alle pulizie. Un lavoro che compie con una dedizione e una cura che un po’ ci mettono in soggezione: come si fa a lavorare così bene, a fare quei gesti con tanta precisione e impegno, soprattutto, pensiamo noi, in un’attività che non è proprio interessante, per non dire spiacevole?
Perché Hirayama pulisce i bagni pubblici della città e lo fa con una precisione millimetrica, con strumenti che si è fabbricato da solo perché siano più efficaci, utilizzando uno specchietto in modo da controllare ogni angolo nascosto. Parliamo di bagni pubblici di Tokio, che meriterebbero un capitolo a parte per la varietà, l’ingegnosità e la bellezza con cui sono inseriti nel contesto urbano (a proposito, qui un link per vederne qualcuno, sono progettati da architetti perché in Giappone sono considerati luoghi importanti che, offrendo un servizio, devono essere rispettosi degli ospiti).

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In questo film c’è dentro molto: quotidianità, incontri importanti e meno, imprevisti, letture, passioni, musica, natura, amore per la fotografia, rispetto, dignità, generosità, silenzio e tanto altro. Ma tutto è detto senza proclami, senza intenzioni didascaliche o retoriche.
È un film fatto di pochissimi dialoghi e di molta bellezza.
Non si può rimanere indifferenti perché in qualche modo ci chiama ad un confronto anche inconsapevole. Ad alcuni potrebbe infastidire. Per la semplicità e l’apparente noia delle giornate tutte uguali in cui vive Hirayama che scopriamo essere una vera e propria scelta di vita: è come se tutto fosse ridotto all’osso, al nucleo essenziale delle cose.

In una intervista il regista afferma: “La prima immagine del film è quando Hirayama apre gli occhi. La sceneggiatura inizia proprio con lui che apre i suoi occhi e poi man mano capiamo che la storia si basa su cosa vedono questi occhi. L’intera pellicola mostra il nostro protagonista intento a guardare il mondo e ci mostra il suo modo di interpretare le cose. Volevo proprio raccontare qualcosa attraverso gli occhi di un uomo che ha deciso di condurre una vita diversa, fatta più di contenuto che di apparenza.” 

Hirayama ogni settimana compra un rullino analogico da 36 fotografie. Gli piace osservare la luce che filtra tra le foglie o sui muri. E immortala quei riflessi che per la sua vita sono una vera e propria ricchezza. Forse- dice Wenders- è anche questo il segreto della sua felicità: la capacità di vedere cose che noi diamo per scontate. In giapponese c’è addirittura una parola apposita per la luce che filtra tra le foglie e per il sentimento che genera: Komorebi (Wenders la inserisce tra i titoli di coda, come per sugellarne l’importanza).

Alla fine, si ha la netta sensazione che la scelta di Hirayama non sia un accontentarsi, ma un saper vivere pienamente il qui e ora.