In una serie TV (zoey’s Extraordinary Playlist) trasmessa in questi giorni una programmatrice informatica conquista la fiducia del suo superiore che la mette a capo di un team di lavoro, costituito da quelli che fino al giorno prima erano suoi colleghi. Senza stare a raccontarne la trama, c’è un particolare rilevante: per una serie di vicende Zoey ha il dono di sentire i pensieri di chi ha di fronte: la gente canta -e lo sente solo lei- per esternarle quello che prova. Ed è così che viene messa a conoscenza bruscamente dell’ostilità e gelosia da parte dei suoi compagni di ufficio, quando diventa il loro capo. In una scena in particolare, lei maldestra e a disagio in quel ruolo, assume il piglio della manager affermando che sa come fare diventare la squadra che ha davanti unita ed efficiente, oberando di documenti e rapporti da leggere, e consegnando un diario a ciascuno su cui annotare i progressi personali. La cosa non è presa bene e i colleghi si dimostrano ancora più svogliati e poco produttivi. Zoey si mette in discussione, ne parla con un amico che le suggerisce di trovare un modo per far sapere che ci tiene a loro e che vede in loro qualcosa di buono. Zoey fa una cosa semplice ma decisiva: legge apertamente il suo stesso diario scritto fin dai primi giorni di lavoro nel team, appena arrivata in quella società. Di ciascuno si è annotata i pregi e le capacità, e dalle sue parole traspare l’orgoglio di aver lavorato per tutto quel tempo fianco a fianco. E qualcosa si smuove, le rigidità si sciolgono e il muro è abbattuto.

In un articolo uscito questo mese sull’Harvard Business Review si torna sull’annoso dibattito dello stile di leadership. In trent’anni di studi accademici, è stato stilato un elenco di marker comunemente usati per esprimere lo status, segnali che sinteticamente posso essere divisi in due categorie:

  1. Di potere (associati ad espressione di sicurezza, competenza, carisma ma anche arroganza, sarcasmo)
  2. Di attrattività (associati ad espressione di simpatia, disponibilità, piacevolezza ma anche sottomissione)

Gli studi fatti dimostrano che spesso i leader mantengono più o meno sempre uno stesso atteggiamento che viene definito stile naturale. Sono pochi quelli che hanno uno stile misto di potere e attrattività perfettamente dosato. Ma la tesi dell’articolo è che questa non è una verità assoluta e ineluttabile. Si può cambiare. Si può imparare a variare in modo dinamico il proprio stile, adattandolo alle situazioni specifiche. Cioè attraverso la conoscenza dei marker, di cui trovate un elenco qui

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un leader può imparare a modificare il suo comportamento. Come? Attraverso delle fasi di avvicinamento.

  • Conosci te stesso: un suggerimento per capire dove ti posizioni è quello di chiedere dei feedback a colleghi, amici, parenti. Leggi tra le righe nelle loro risposte, e capirai verso che stile propendi, anche al di fuori della tua stessa percezione.
  • Sperimenta marker diversi: adotta qualche marker diverso da quelli che ti sono più consoni, per avvicinarti ad uno stile misto. Anche se la cosa ti fa sentire non autentico, non è così. Si tratta di crescere come leader imparando modi di comportarti differenti da quelli a cui sei abituato.
  • Leggi l’aula: anche se pensi di sapere come ti devi comportare quando stai entrando in un contesto relazionale, sii pronto a cambiare piano quando ci entri effettivamente. Sviluppa la capacità di leggere chi hai di fronte.

Un nota bene degli autori: lo stile di leadership in un contesto lavorativo è un fattore significativo di differenziazione. Ma non dipende solo dal carattere e dalla personalità. La buona notizia è che è qualcosa che si può modificare, che si può acquisire e può fare una grande differenza nel modo in cui veniamo percepiti.