Qualche tempo fa sulla prestigiosa rivista Nature è stato pubblicato il risultato di uno studio in cui si è dimostrato che le poesie generate da AI per un pubblico di lettori mediamente esperti, non sono distinguibili da poesie originali dei più grandi poeti, da Shakespeare in poi. Anzi, in certi casi, alcune di esse sono state valutate più belle, più musicali, più emozionanti.
Abbiamo provato a leggere (sul web se ne trovano, ma si può anche provare a sperimentare direttamente con ChatGpt) alcune poesie generate da AI, e alcuni risultati sono difficili se non impossibili da riconoscere come frutto di un algoritmo.
Se voleste cimentarvi con curiosità, vi lasciamo qui, ad esempio, un link.
Senza retoriche o pregiudizi inutili, ci siamo interrogati su cosa, per noi, fa veramente la differenza tra leggere certe parole o altre, al di fuori dei dibattiti che da tempo studiosi ed esperti stanno portando avanti.
E la risposta alla fine ci è sembrata questa. La differenza la fa il corpo, la vita di una persona, la sua storia e l’imperfezione di ogni esistenza.
Le parole generate da intelligenza artificiale possono essere belle e possono persino toccarci, ma le si sente vere e pungenti fino alle lacrime solo se si sa che chi le scrive ha vissuto qualcosa che ci sa leggere, in cui ci riconosciamo o non ci riconosciamo e per questo ne veniamo provocati magari o anche infastiditi. Ma sempre dentro un dialogo corpo-mente, mente-corpo, imprescindibile. Parole incarnate, nel bene e nel male. Anche fossero di anonimo ma riconducibili ad un corpo esistente, fatto di sangue, ossa, cervello, anima.
A non saperlo, davanti ad un bel testo creato da algoritmo, potremmo essere colpiti. Ma subito dopo vorremmo sapere chi è l’autore di quelle parole e che esperienza ha vissuto e da quale ferita sono sgorgate. Se venissimo a conoscenza di essere stati “commossi” da una tecnologia, sarebbe un effetto di straniamento, difficile da accettare perché ci porterebbe subito ad un elemento di artificialità che mette un’inevitabile (per fortuna) distanza tra noi e quelle parole.
Natura morta con cipolle, Mario Giacomelli © (1925 – 2000)
Ci serve una compromissione con la realtà e con le cose del mondo, con la sua precarietà e contraddizioni per muoverci e per commuoverci, una compromissione che riesce a dare importanza a quella cipolla di Wislawa Szymborska. o di Neruda (Ode alla cipolla) e che devi aver avuto tra le mani per poterne davvero raccontare.
Vi lasciamo qui, a parlar di cipolle, le parole concretissime della poetessa polacca:
La cipolla è un’altra cosa.
Interiora non ne ha.
Completamente cipolla
fino alla cipollità.
Cipolluta di fuori,
cipollosa fino al cuore,
potrebbe guardarsi dentro
senza provare timore.
In noi ignoto e selve
di pelle appena coperti,
interni d’inferno,
violenta anatomia,
ma nella cipolla – cipolla,
non visceri ritorti.
Lei più e più volte nuda,
fin nel fondo e così via.
Coerente è la cipolla,
riuscita è la cipolla.
Nell’una ecco sta l’altra,
nella maggiore la minore,
nella seguente la successiva,
cioè la terza e la quarta.
Una centripeta fuga.
Un’eco in coro composta.
La cipolla, d’accordo:
il più ventre del mondo.
A propria lode di aureole
da sé si avvolge in tondo.
In noi – grasso, nervi, vene,
muchi e secrezione.
E a noi resta negata
l’idiozia della perfezione
Wislawa Szymborska