Sì, è vero, anche in questa news parliamo di fotografia. O meglio. Parliamo dell’incontro con un modo di vedere la realtà che passa attraverso la peculiarità di un incontro, ogni volta diverso, che avviene quando si visita una mostra. Perché in fondo di un incontro si tratta.
In questi giorni le immagini che ritornano sono quelle di Mario Giacomelli, esposte a Palazzo Reale.

Si potrebbe parlare a lungo del fotografo di Senigallia, dei suoi reportage nel Sud Italia, della famosa foto del ragazzino di Scanno entrata al Moma di New York, del suo bianco e nero estremo e sfumato, dai contorni mai definiti, dei paesaggi che sembrano graffiti nei muri, della serie di fotografie raccolte per affiancare i versi di poeti come Montale, Leopardi, Lee Masters, delle immagini quasi fanciullesche che ritraggono i preti del seminario di Senigallia, mentre giocano nella neve, con un gatto e una palla, il cui titolo – Io non ho mani che mi accarezzino il volto – rivela il cuore profondo e malinconico del progetto artistico.

È una produzione vasta, solo a Milano sono esposti 300 scatti, in contemporanea con la retrospettiva di Roma che ne ospita altrettanti.

Ma quello che ci interessa e ci incuriosisce è sempre l’uomo e il cercare di capire cosa spinge, come in questo caso, un tipografo, a prender in mano una macchina fotografica e a fare di essa una parte del suo corpo o- come affermava, un prolungamento della sua idea. Non ha fatto scuole o accademie Giacomelli, anzi ha sempre provato una certa ritrosia a parlare ufficialmente di arte. La solitudine è stata l’habitus del suo lavoro, un valore, che gli ha permesso di esprimersi e di svelare sè innanzitutto a sé stesso. Non formule da imparare per un bello scatto, ma una vita intera dedicata ad un viaggio interiore, che attraversa la realtà per sondarne il mistero e la magia.          

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Per questo davanti alla serie “Favola per un viaggio verso possibili significati interiori” si rimane a guardare il groviglio di ferri neri su sfondo bianco, dove la variazione tra uno scatto e l’altro sembra minima, e ci si interroga, senza capirci nulla, ma intuendo un mistero a cui non riusciamo a dare un nome. Gli scatti di Giacomelli non sono lì per illustrare, non sono didascalici, nemmeno quando affiancano le poesie e i versi dei poeti che ama. Leggiamo l’Infinito e a fianco, vediamo dei segni misteriosi, bianchi e neri profondi, non immediati. “A me il realismo interessa, ma il mio è un realismo deformato», dirà. Per lui, la realtà è il punto di partenza, ma poi serve il tempo, l’introspezione, la domanda: “Perché sono qui, e non altrove?”.

In un’intervista racconta di arrabbiarsi quando sente qualcuno che davanti ad una sua fotografia esclama: “Che bella immagine”, perché è solo quando qualcuno dice “non ci ho capito nulla” che l’immagine morta inizia a vivere, dentro le domande di chi la osserva. “Lo spettatore è partecipe del risultato di un’immagine, perché se lui è distratto, l’immagine non respira, rimane muta (…) Per farle rivivere le immagini vanno interrogate, ed è una cosa grandissima, come andare a trovare un malato in ospedale, perché in fondo tutti aspettano qualcosa…”

Di sé diceva: “L’unica ricchezza vera che Dio mi ha dato è la mia povertà da piccolo. Ho imparato più cose da piccolo che da grande. Anzi, da grande ho imparato che non sapevo proprio niente e non capivo proprio niente, e mi meraviglia quella gente che ha capito tutto ed è ancora tanto giovane.”

La mostra è esposta a Palazzo reale a Milano fino al 7 settembre 2025 e per chi può, la consigliamo!

 

 Foto in copertina e al centro di © Mario Giacomelli